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    <span style="font-family:trebuchet ms,helvetica,sans-serif;">
      <span style="font-size:18px;">&laquo; Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realt&agrave;, perch&eacute; son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, C&agrave;vusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco &quot;Kaos&quot;. &raquo; (Luigi Pirandello) La famiglia Pirandello, figlio di Stefano e Caterina Ricci Gramitto, appartenenti a famiglie di agiata condizione borghese, dalle tradizioni risorgimentali, nacque nel 1867 in localit&agrave; C&agrave;vusu vicino Girgenti, luogo che al momento della sua nascita aveva cambiato la sua denominazione originaria in &quot;Caos&quot;. Nell&#39;imminenza del parto che doveva avvenire a Porto Empedocle, per un&#39;epidemia di colera che stava colpendo la Sicilia, il padre Stefano aveva deciso di trasferire la famiglia in una isolata tenuta di campagna per evitare il contatto con la pestilenza. Porto Empedocle, prima di chiamarsi cos&igrave;, era una borgata (Borgata Molo) di Girgenti (l&#39;odierna Agrigento). Quando nel 1853 si decise che la borgata divenisse comune autonomo &laquo;La linea di confine fra i due comuni venne fissata all&#39;altezza della foce di un fiume essiccato che tagliava in due la contrada chiamata &quot;u C&agrave;vuso&quot; o &quot;u C&agrave;usu&quot; (pantaloni)...Questo C&agrave;vuso apparteneva met&agrave; al nuovo comune di Porto Empedocle e l&#39;altra met&agrave; al Comune di Girgenti...A qualche impiegato dell&#39;ufficio anagrafe parse che non era cosa [che si scrivesse che qualcuno fosse nato in un paio di pantaloni] e cangi&ograve; quel volgare &quot;C&agrave;usu&quot; in &quot;Caos&quot;&raquo;.[1] Il padre, Stefano Pirandello, aveva partecipato tra il 1860 e il 1862 alle imprese garibaldine; aveva sposato nel 1863 Caterina, sorella di un suo commilitone, Rocco Ricci Gramitto. Il nonno materno di Luigi, Giovanni Ricci Gramitto, era stato tra gli esponenti di spicco della rivoluzione siciliana del 1848-49 ed escluso dall&#39;amnistia al ritorno del Borbone era fuggito in esilio a Malta dove era morto un anno dopo, nel 1850, a soli 46 anni.[2] Il nonno paterno, Andrea, era stato un armatore e ricco uomo d&#39;affari di Pra&#39;, ora quartiere di Genova. La famiglia di Pirandello viveva in una situazione economica agiata, grazie al commercio e all&#39;estrazione dello zolfo. I primi anni La casa natale di Pirandello, in localit&agrave; Caos L&#39;infanzia di Pirandello non fu sempre serena ma, come lui stesso avrebbe raccontato nel 1935, caratterizzata anche dalla difficolt&agrave; di comunicare con gli adulti e in specie con i suoi genitori, in modo particolare con il padre. Questo lo stimol&ograve; ad affinare le sue capacit&agrave; espressive e a studiare il modo di comportarsi degli altri per cercare di corrispondervi al meglio. Fin da ragazzo soffriva d&#39;insonnia e dormiva abitualmente solo tre ore per notte.[3] Il giovane Luigi era molto devoto alla Chiesa Cattolica grazie all&#39;influenza che ebbe su lui una serva di famiglia, che lo avvicin&ograve; alle pratiche religiose, ma inculcandogli anche credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa presenza degli spiriti. La chiesa e i riti della confessione religiosa gli permettevano di accostarsi ad un&#39;esperienza di misticismo, che cercher&agrave; di raggiungere in tutta la sua esistenza. Si allontan&ograve; dalle pratiche religiose per un avvenimento apparentemente di poco conto: un prete aveva truccato un&#39;estrazione a sorte per far vincere un&#39;immagine sacra al giovane Luigi; questi rimase cos&igrave; deluso dal comportamento inaspettatamente scorretto del sacerdote che non volle pi&ugrave; avere a che fare con la Chiesa, praticando una religiosit&agrave; del tutto diversa da quella ortodossa. Dopo l&#39;istruzione elementare impartitagli da maestri privati, and&ograve; a studiare in un istituto tecnico e poi al ginnasio. Qui si appassion&ograve; subito alla letteratura. A soli undici anni scrisse la sua prima opera, &quot;Barbaro&quot;, andata perduta. Per un breve periodo, nel 1886, aiut&ograve; il padre nel commercio dello zolfo, e pot&eacute; conoscere direttamente il mondo degli operai nelle miniere e quello dei facchini delle banchine del porto mercantile. Inizi&ograve; i suoi studi universitari a Palermo nel 1886, per recarsi in seguito a Roma, dove continu&ograve; i suoi studi di filologia romanza che poi, anche a causa di un insanabile conflitto con il rettore dell&#39;ateneo capitolino, dovette completare su consiglio del suo maestro Ernesto Monaci, a Bonn[4] (1889). A Bonn, importante centro culturale di quei tempi, Pirandello segu&igrave; i corsi di filologia romanza ed ebbe l&#39;opportunit&agrave; di conoscere grandi maestri come Franz B&uuml;cheler, Hermann Usener e Richard F&ouml;rster. Si laure&ograve; nel 1891 con una tesi sulla parlata agrigentina &quot;Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti&quot; (Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti), in cui descrisse il dialetto della sua citt&agrave; e quelli dell&#39;intera provincia, che suddivise in diverse aree linguistiche. Il tipo di studi gli fu probabilmente di fondamentale aiuto nella stesura delle sue opere, dato il raro grado di purezza della lingua italiana utilizzata. Il matrimonio Nel 1892 Pirandello si trasfer&igrave; a Roma, dove pot&eacute; mantenersi grazie agli assegni mensili inviati dal padre. Qui conobbe Luigi Capuana che lo aiut&ograve; molto a farsi strada nel mondo letterario e che gli apr&igrave; le porte dei salotti intellettuali dove ebbe modo di conoscere giornalisti, scrittori, artisti e critici. Nel 1894, a Girgenti, Pirandello spos&ograve; Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre. Questo matrimonio probabilmente concordato soddisfaceva anche gli interessi economici della famiglia di Pirandello. Nonostante ci&ograve; tra i due coniugi nacque veramente l&#39;amore e la passione. Grazie alla dote della moglie, la coppia godeva di una situazione molto agiata, che le permise di trasferirsi a Roma. Nel 1895, a completare l&#39;amore tra gli sposi, nacque il primo figlio: Stefano, a cui seguirono due anni dopo, Rosalia (1897) e nel 1899 Fausto. Il crollo finanziario Nel 1904, un allagamento e una frana nella miniera di zolfo di Aragona di propriet&agrave; del padre, nella quale era stata investita parte della dote di Antonietta, e da cui anche Pirandello e la sua famiglia traevano un notevole sostentamento, li ridusse sul lastrico[5]. Questo avvenimento accrebbe il disagio mentale, gi&agrave; manifestatosi, della moglie di Pirandello, Antonietta. Ella era sempre pi&ugrave; spesso soggetta a crisi isteriche, causate anche dalla gelosia, a causa delle quali o lei rientrava dai genitori in Sicilia, o Pirandello era costretto a lasciare la casa. Solo diversi anni dopo, nel 1919, egli, ormai disperato, acconsent&igrave; che Antonietta fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico[5]. La malattia della moglie port&ograve; lo scrittore ad approfondire, portandolo ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicoanalisi di Sigmund Freud, lo studio dei meccanismi della mente e ad analizzare il comportamento sociale nei confronti della malattia mentale. Spinto dalle ristrettezze economiche e dallo scarso successo delle sue prime opere letterarie, e avendo come unico impiego fisso la cattedra di stilistica all&#39;Istituto superiore di magistero femminile (che tenne dal 1897 al 1922)[5], lo scrittore dovette impartire lezioni private[5] di italiano e di tedesco, dedicandosi anche intensamente al suo lavoro letterario. Dal 1909 inizi&ograve; anche una collaborazione con il Corriere della Sera. Il primo grande successo Il suo primo grande successo fu merito del romanzo Il fu Mattia Pascal, scritto nelle notti di veglia alla moglie paralizzata nelle gambe[6] Il libro fu pubblicato nel 1904 e subito tradotto in diverse lingue. La critica non dette subito al romanzo il successo che invece ebbe tra il pubblico. Numerosi critici non seppero cogliere il carattere di novit&agrave; del romanzo, come d&#39;altronde di altre opere di Pirandello. Perch&eacute; Pirandello arrivasse al successo si dovette aspettare il 1922, quando si dedic&ograve; totalmente al teatro. Lo scrittore siciliano aveva rinunciato a scrivere opere teatrali quando l&#39;amico Nino Martoglio gli chiese di mandare in scena nel suo Teatro Minimo presso il Teatro Metastasio di Roma alcuni suoi lavori: Lumie di Sicilia e l&#39; Epilogo, un atto unico scritto nel 1892. Pirandello acconsent&igrave; e la rappresentazione il 9 dicembre del 1910 dei due atti unici ebbe un discreto successo. Tramite i buoni uffici del suo amico Martoglio anche Angelo Musco volle cimentarsi con il teatro pirandelliano: Pirandello tradusse per lui in siciliano Lumie di Sicilia, rappresentato con grande successo al Teatro Pacini di Catania il 1 luglio 1915. Cominci&ograve; da questa data la collaborazione con Musco che incominci&ograve; a guastarsi dopo qualche tempo per la diversit&agrave; di opinioni sulla messa in scena di Musco della commedia Liol&agrave; nel novembre del 1916 al teatro Argentina di Roma.[7] &laquo;Gravi dissensi&raquo; di cui Pirandello scriveva nel 1917 al figlio Stefano.[8] Pirandello e la politica L&#39;idea politica di fondo di Pirandello era legata al patriottismo risorgimentale. Una sua lettera apparsa nel 1915 sul Giornale di Sicilia testimonia gli ideali patriottici della famiglia, proprio nei primi mesi dallo scoppio della Grande Guerra durante la quale il figlio Stefano fu fatto prigioniero dagli austriaci e rinchiuso nel campo di concentramento di Pian di Boemia. Pirandello non riusc&igrave; a far liberare il figlio malato neppure con l&#39;intervento del papa Benedetto XV.[9] Nella sua vita condivise alcune delle idee dei giovani Fasci siciliani e del socialismo; ne I vecchi e i giovani si nota come l&#39;idea politica di Pirandello era stata oscurata dalla riflessione &quot;umoristica&quot;. Per Pirandello, i siciliani avevano sub&igrave;to le peggiori ingiustizie dai vari governi italiani: &egrave; questa l&#39;unica idea forte che ci presenta. L&#39;adesione al Fascismo Nel 1924 il quotidiano L&#39;Impero pubblic&ograve; un telegramma inviato da Pirandello a Mussolini: &laquo; Eccellenza, sento che questo &egrave; per me il momento pi&ugrave; proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l&#39;E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregier&ograve; come massimo onore tenermi il posto del pi&ugrave; umile e obbediente gregario. Con devozione intera &raquo; A seguito di questa richiesta, fu pubblicamente duramente attaccato da alcuni intellettuali e politici italiani fra cui il politico liberal-socialista Giovanni Amendola che in un articolo arriv&ograve; a dargli dell&#39;&quot;accattone&quot; che voleva a tutti i costi divenir senatore del Regno. Pirandello , pur non ritrovandosi caratterialmente con Mussolini e molti gerarchi, non rinneg&ograve; mai la sua adesione al fascismo, motivata tra le altre cose da una profonda sfiducia nei regimi socialdemocratici, regimi nei quali sin da inizio novecento si andavano trasformando le democrazie liberali [10],[11] Nel 1925 Pirandello fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile. L&#39;adesione di Pirandello al Fascismo fu per molti imprevista e sorprese anche i suoi pi&ugrave; stretti amici. Un&#39;altra motivazione addotta per spiegare tale scelta &egrave; che il fascismo lo riconduceva a quegli ideali patriottici e risorgimentali di cui Pirandello era convinto sostenitore, anche per le radici garibaldine del padre. Pirandello vedeva, secondo questa tesi, nel Fascismo la prima idea originale post-risorgimentale, che doveva rappresentare la &quot;forma&quot; nuova dell&#39;Italia destinata a divenire modello per l&#39;Europa. Potrebbe apparire un punto di contatto tra Pirandello e il fascismo[12] il sostenuto relativismo filosofico di entrambi. In realt&agrave; ben diverso &egrave; il relativismo morale fascista fondato sull&#39;attivismo soreliano e il relativismo esistenziale pirandelliano che si richiama all&#39;originario movimento scettico-razionale europeo della fine del XIX secolo e l&#39;inizio del XX. &laquo; Pirandello si fa interprete di un relativismo pessimistico, angosciato, negatore di ogni certezza, del tutto incompatibile con l&#39;ansia attivistica o relativistica -positiva -del nostro tempo[13] &raquo; Sempre nel solco di Amendola e dei critici antifascisti vi &egrave; un commento pi&ugrave; pragmatico alla sua iscrizione al partito fascista,la quale avrebbe avuto origine nel suo ricercare finanziamenti per la creazione della sua nuova compagnia teatrale, che avrebbe cos&igrave; avuto il sostegno del regime e le relative sovvenzioni. In ogni caso come detto non furono infrequenti suoi scontri violenti con autorit&agrave; fasciste e dichiarazioni aperte di apoliticit&agrave;: &laquo; Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto...&raquo;.[14] Clamoroso fu il gesto del 1927, narrato da Corrado Alvaro (e riportato da G. Giudice nel suo saggio), in cui Pirandello a Roma strapp&ograve; la sua tessera del partito davanti agli occhi esterrefatti del Segretario Nazionale.[15] Nel 1935, in nome dei suoi ideali patriottici, partecip&ograve; alla raccolta dell&#39;&quot;oro per la patria&quot; donando la medaglia del premio Nobel ricevuto l&#39;anno prima.[16] La critica fascista non sempre esaltava le opere di Pirandello, spesso considerandole non conformi agli ideali fascisti: vi si vedeva una certa insistenza e considerazione di quella borghesia altolocata che il fascismo formalmente condannava come corrotta e decadente. Gli arzigogoli filosofici dei personaggi dei drammi borghesi pirandelliani erano considerati quanto di pi&ugrave; lontano dall&#39;attivismo fascista[17] Anche dopo l&#39;attribuzione del Nobel parecchi lavori furono accusati dalla stampa di regime di disfattismo tanto che anche Pirandello fin&igrave; tra i &quot;controllati speciali&quot; dell&#39;OVRA.[18] Il rifugio di Soriano nel Cimino Luigi Pirandello amava trascorrere ampi periodi dell&#39;anno nella quiete di Soriano nel Cimino (VT) una amena e bella cittadina ricca di monumenti storici ed immersa nei boschi del Monte Cimino. In particolare Pirandello rimase affascinato dalla maestosit&agrave; e dalla quiete di uno stupendo castagneto sito nella localit&agrave; di &quot;Pian della Britta&quot;, a cui egli volle dedicare una omonima poesia, che oggi &egrave; scolpita su una lapide di marmo posta proprio in tale localit&agrave;. Pirandello ambient&ograve; a Soriano nel Cimino (citando luoghi, localit&agrave; e personaggi realmente esistiti) anche due tra le sue pi&ugrave; celebri novelle Rondone e Rondinella e Tomassino ed il filo d&#39;erba. A Soriano nel Cimino, &egrave; rimasto vivo ancora oggi il ricordo di Pirandello a cui sono dedicati monumenti, lapidi e strade. Dalla Grande Guerra al Nobel La guerra fu un&#39;esperienza dura per Pirandello; il figlio Stefano venne infatti imprigionato dagli austriaci, e, una volta rilasciato, ritorn&ograve; in Italia gravemente malato e con i postumi di una ferita. Durante la guerra, inoltre, le condizioni psichiche della moglie si aggravarono al punto da rendere inevitabile il ricovero in manicomio (1919). Dopo la guerra, lo scrittore si immerse in un lavoro frenetico, dedicandosi soprattutto al teatro. Nel 1925 fond&ograve; la &quot;Compagnia del teatro d&#39;arte&quot; con due grandissimi interpreti dell&#39;arte pirandelliana: Marta Abba e Ruggero Ruggeri. Con questa compagnia cominci&ograve; a viaggiare per il mondo: le sue commedie vennero rappresentate anche nei teatri di Broadway. Nel 1929 gli venne conferito il titolo di Accademico d&#39;Italia. Nel giro di un decennio arriv&ograve; ad essere il drammaturgo di maggior fama nel mondo, come testimonia il premio Nobel per la letteratura ricevuto nel 1934. La morte e il testamento Grande appassionato di cinematografia, mentre assisteva a Cinecitt&agrave; alle riprese di un film tratto dal suo &quot;Il fu Mattia Pascal&quot;, si ammal&ograve; di polmonite. Aveva gi&agrave; subito due attacchi di cuore, e il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti della vita, non sopport&ograve; oltre. Pirandello mor&igrave; lasciando incompiuto un nuovo lavoro teatrale, I giganti della montagna. Il regime fascista avrebbe voluto esequie di Stato. Vennero invece rispettate le sue volont&agrave; espresse nel testamento: &quot;Carro d&#39;infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m&#39;accompagni, n&eacute; parenti n&eacute; amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi&quot;[5]. Per sua volont&agrave; il corpo fu cremato, per evitare postume consacrazioni cimiteriali e monumentali. Le sue ceneri furono portate nella sua tenuta di contrada &quot;Caos&quot; e solo dopo un po&#39; di anni furono incassate in una scultura monolitica. [19] Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Le ceneri di Pirandello. Il pensiero Pirandello fotografato negli anni venti &laquo; ... davanti agli occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque sistema filosofico. &raquo; (L. Pirandello, dai Foglietti[20]) Pirandello si occup&ograve; di questioni teoriche fin da giovane. Si avvicin&ograve; alle teorie dello psicologo Alfred Binet. Pubblic&ograve; nel 1908 i saggi Arte e Scienza e L&#39;umorismo caratterizzati da un&#39;esposizione di stile colloquiale, molto lontana dal consueto discorso filosofico. Le due opere sono espressione di un&#39;unica maturazione artistica ed esistenziale che ha coinvolto lo scrittore siciliano all&#39;inizio del &#39;900 e che vede come centrale proprio la poetica dell&#39;umorismo. L&#39;umorismo Nel saggio &quot;L&#39;umorismo&quot; Pirandello distingue il comico dall&#39;umorismo.[21] Il primo, definito come &quot;avvertimento del contrario&quot; [22] , nasce dal contrasto tra l&#39;apparenza e la realt&agrave;. Nel saggio citato Pirandello ce ne fornisce un esempio: &laquo; Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d&#39;abiti giovanili. Mi metto a ridere. &quot;Avverto&quot; che quella vecchia signora &egrave; il contrario di ci&ograve; che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso cos&igrave;, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico &egrave; appunto un &quot;avvertimento del contrario&quot; &raquo; (L. Pirandello, L&#39;umorismo, Parte seconda[23]) L&#39;umorismo, invece, nasce da una considerazione meno superficiale della situazione: &laquo; Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi cos&igrave; come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perch&eacute; pietosamente, s&#39;inganna che, parata cos&igrave;, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a s&eacute; l&#39;amore del marito molto pi&ugrave; giovane di lei, ecco che io non posso pi&ugrave; riderne come prima, perch&eacute; appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, pi&ugrave; addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed &egrave; tutta qui la differenza tra il comico e l&#39;umoristico &raquo; (L. Pirandello, L&#39;umorismo, Parte seconda[23]) Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perch&eacute; mostra subito la situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l&#39;umorismo nasce da una pi&ugrave; ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di comprensione. Nell&#39;umorismo c&#39;&egrave; il senso di un comune sentimento della fragilit&agrave; umana da cui nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. L&#39;umorismo &egrave; meno spietato del comico che giudica in maniera immediata. &laquo; non ci fermiamo alle apparenze, ci&ograve; che inizialmente ci faceva ridere adesso ci far&agrave; tutt&#39;al pi&ugrave; sorridere. &raquo; (Luigi Pirandello) La crisi dell&#39;io L&#39;analisi dell&#39;identit&agrave; condotta da Pirandello lo port&ograve; a formulare la teoria della crisi dell&#39;io. In un articolo del 1900 scrisse: &laquo; Il nostro spirito consiste di frammenti, o meglio, di elementi distinti, pi&ugrave; o meno in rapporto tra loro, i quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento, cos&igrave; che ne risulti una nuova personalit&agrave;, che pur fuori dalla coscienza dell&#39;io normale, ha una propria coscienza a parte, indipendente, la quale si manifesta viva e in atto, oscurandosi la coscienza normale, o anche coesistendo con questa, nei casi di vero e proprio sdoppiamento dell&#39;io. [...] Talch&eacute; veramente pu&ograve; dirsi che due persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel medesimo individuo. Con gli elementi del nostro io noi possiamo perci&ograve; comporre, costruire in noi stessi altri individui, altri esseri con propria coscienza, con propria intelligenza, vivi e in atto. &raquo; Paradossalmente, il solo modo per recuperare la propria identit&agrave; &egrave; la follia, tema centrale in molte opere, come l&#39;Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale Pirandello inserisce addirittura una ricetta per la pazzia: dire sempre la verit&agrave;, la nuda e cruda e tagliente verit&agrave;, infischiandosene dei riguardi e delle maniere, delle ipocrisie e delle convenzioni sociali. Questo comportamento porter&agrave; presto all&#39;isolamento da parte della societ&agrave; e, agli occhi degli altri, alla pazzia. Abbandonando le convenzioni sociali e morali l&#39;uomo pu&ograve; ascoltare la propria interiorit&agrave; e vivere nel mondo secondo le proprie leggi, cala la maschera e percepisce se stesso e gli altri senza dover creare un personaggio, &egrave; semplicemente persona. Esemplare di tale concezione &egrave; l&#39;evoluzione di Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila. Ancora sulla crisi dell&#39;identit&agrave; del singolo impotente con la sua razionalit&agrave; di fronte al mistero universale che lo circonda, Pirandello, all&#39;inizio del XIII capitolo del romanzo Il fu Mattia Pascal, espone metaforicamente la sua filosofia del &quot;lanternino&quot;: &laquo; ... che proietta tutto intorno a noi un cerchio pi&ugrave; o meno ampio di luce, di l&agrave; dal quale &egrave; l&#39;ombra nera, l&#39;ombra paurosa che non esisterebbe se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi purtroppo dobbiamo credere vera, fintanto ch&#39;esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine da un soffio, ci accoglier&agrave; la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla merc&eacute; dell&#39; Essere, che avr&agrave; soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?[24] &raquo; Il contrasto tra vita e forma Pirandello svolge una ricerca inesausta sull&#39;identit&agrave; della persona nei suoi aspetti pi&ugrave; profondi, dai quali dipendono sia la concezione che ogni persona ha di s&eacute;, sia le relazioni che intrattiene con gli altri. Influenzato dalla filosofia irrazionalistica di fine secolo, in particolare di Bergson, Pirandello ritiene che l&#39;universo sia in continuo divenire e che la vita sia dominata da una mobilit&agrave; inesauribile. L&#39;uomo &egrave; in balia di questo flusso dominato dal caso, ma a differenza degli altri esseri viventi tenta inutilmente di opporsi costruendo forme fisse, nelle quali potersi riconoscere ma finiscono con il legarlo a maschere in cui non pu&ograve; mai riconoscersi. Se l&#39;essenza della vita &egrave; il flusso continuo, il perenne divenire, quindi fissare il flusso equivale a non vivere. Poich&egrave; &egrave; impossibile fissare la vita in un unico punto. Questa dicotomia tra vita e forma, accompagner&agrave; l&#39;autore in tutta la sua produzione evidenziando la sconfitta dell&#39;uomo di fronte alla societ&agrave;, dovuta all&#39;impossibilit&agrave; di fuggire alle convenzioni di quest&#39; ultima se non con la follia. Questa riflessione, che si rispecchia nelle varie opere con accenti ora lievi ora gravi e tragici, &egrave; stata, ad opera soprattutto dello studioso Adriano Tilgher interpretata come un sistema filosofico basato sul contrasto tra la Vita e la Forma. Il relativismo psicologico Dal contrasto tra la vita e la forma nasce il relativismo psicologico che si esprime in due sensi: orizzontale, ovvero nel rapporto interpersonale, e verticale, ovvero nel rapporto che una persona ha con se stessa. Gli uomini nascono liberi ma il Caso interviene nella loro vita precludendo ogni loro scelta: l&#39;uomo nasce in una societ&agrave; precostituita dove ad ognuno viene assegnata una parte secondo la quale deve comportarsi. Ciascuno &egrave; obbligato a seguire il ruolo e le regole che la societ&agrave; impone, anche se l&#39;io vorrebbe manifestarsi in modo diverso: solo per l&#39;intervento del caso pu&ograve; accadere di liberarsi di una forma per assumerne un&#39;altra, dalla quale non sar&agrave; pi&ugrave; possibile liberarsi per tornare indietro, come accade al protagonista de Il fu Mattia Pascal. L&#39;uomo dunque non pu&ograve; capire n&eacute; gli altri n&eacute; tanto meno se stesso, poich&eacute; ognuno vive portando - consapevolmente o, pi&ugrave; spesso, inconsapevolmente - una maschera dietro la quale si agita una moltitudine di personalit&agrave; diverse e inconoscibili. Queste riflessioni trovano la pi&ugrave; esplicita manifestazione narrativa nel romanzo Uno, nessuno e centomila: Uno: perch&eacute; ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari; Centomila perch&eacute; l&#39;uomo ha, dietro la maschera, tante personalit&agrave; quante sono le persone che ci giudicano; Nessuno perch&eacute;, paradossalmente, se l&#39;uomo ha 100.000 personalit&agrave; invero non ne possiede nessuna, nel continuo cambiare non &egrave; capace di fermarsi nel suo vero &quot;io&quot;. L&#39;incomunicabilit&agrave; Il relativismo conoscitivo e psicologico su cui si basa il pensiero di Pirandello si scontra con il conseguente problema dell&#39; incomunicabilit&agrave; tra gli uomini: dato che ogni persona ha un proprio modo di vedere la realt&agrave; e dunque una propria verit&agrave;, non pu&ograve; esistere una comunicazione che abbia basi oggettive e condivise. L&#39;incomunicabilit&agrave; produce quindi un sentimento di solitudine ed esclusione dalla societ&agrave; e persino da se stessi, poich&eacute; proprio la crisi e frammentazione dell&#39;io crea diversi io discordanti (&quot;Il nostro spirito consiste di frammenti&quot;) che non risolvono la frammentazione se non facendo scoprire al personaggio di non essere poi nessuno. Il personaggio di conseguenza avverte un sentimento di estraneit&agrave; dalla vita che lo fa sentire forestiere della vita[25], nonostante la continua ricerca di un senso dell&#39;esistenza e di un&#39;identificazione di un proprio ruolo, che vada oltre la maschera, o le diverse e innumerevoli maschere, che compaiono al prospetto della societ&agrave; come delle persone pi&ugrave; vicine. Il tema dell&#39;incomunicabilit&agrave; &egrave; ben espresso dal personaggio di Vitangelo Moscarda del romanzo Uno, nessuno e centomila e dalla commedia Sei personaggi in cerca di autore. La reazione al relativismo Reazione passiva L&#39;uomo accetta la maschera, che lui stesso ha messo o con cui gli altri tendono a identificarlo. Ha provato sommessamente a mostrarsi per quello che lui crede di essere ma, incapace di ribellarsi o deluso dopo l&#39;esperienza di vedersi attribuita una nuova maschera, si rassegna. Vive nell&#39;infelicit&agrave;, con la coscienza della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che gli altri gli fanno vivere per come essi lo vedono. Accetta alla fine passivamente il ruolo da recitare che gli si attribuisce sulla scena dell&#39;esistenza. Questa &egrave; la reazione tipica delle persone pi&ugrave; deboli come si pu&ograve; vedere nel romanzo Il fu Mattia Pascal. Reazione ironico - umoristica Il soggetto non si rassegna alla sua maschera per&ograve; accetta il suo ruolo con un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Ne fanno esempio varie opere di Pirandello come: Pensaci Giacomino, Il gioco delle parti e La patente. Il personaggio principale di quest&#39;ultima opera, Rosario Chi&agrave;rchiaro, &egrave; un uomo cupo, vestito sempre in nero che si &egrave; fatto involontariamente la nomea di iettatore e per questo &egrave; sfuggito da tutti ed &egrave; rimasto senza lavoro. Il presunto iettatore non accetta l&#39;identit&agrave; che gli altri gli hanno attribuito ma comunque se ne serve. Va dal giudice e, poich&eacute; tutti sono convinti che sia un menagramo, pretende la patente di iettatore autorizzato. In questo modo avr&agrave; un nuovo lavoro: chi vuole evitare le disgrazie che promanano da lui dovr&agrave; pagare per allontanarlo. La maschera rimane ma almeno se ne ricava un vantaggio. Reazione drammatica L&#39;uomo, accortosi del relativismo, si render&agrave; conto che l&#39;immagine che aveva sempre avuto di s&eacute; non corrispondesse in realt&agrave; a quella che gli altri avevano di lui e cercher&agrave; in ogni modo di carpire questo lato inaccessibile del suo io. Vuole togliersi la maschera che gli &egrave; stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a strapparsela ed allora se &egrave; cos&igrave; che lo vuole il mondo, egli sar&agrave; quello che gli altri credono di vedere in lui e non si fermer&agrave; nel mantenere questo suo atteggiamento sino alle ultime e drammatiche conseguenze. Si chiuder&agrave; in una solitudine disperata che lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio. Da tale sforzo verso un obiettivo irraggiungibile nascer&agrave; la voluta follia. La follia &egrave; infatti in Pirandello lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale, l&#39;arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all&#39;assurdo e rivelandone l&#39;incoscienza. L&#39; unico modo per vivere, per trovare il proprio io &egrave; quello di accettare il fatto di non avere un&#39;identit&agrave;, ma solo centomila frammenti (e quindi di non essere poi nessuno), accettare l&#39;alienazione completa da s&eacute; stessi. Tuttavia la societ&agrave; non accetta il relativismo, e chi lo fa viene dunque ritenuto pazzo. Esemplari sono i personaggi dei drammi Enrico IV, dei Sei personaggi in cerca d&#39;autore, o di Uno, nessuno e centomila. Teatro Busto di Pirandello in un parco di Palermo Pirandello divenne famoso proprio grazie al teatro che chiama teatro dello specchio, perch&eacute; in esso viene raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell&#39;ipocrisia e delle convenienze sociali, di modo che lo spettatore si guardi come in uno specchio cos&igrave; come realmente &egrave;, e diventi migliore. Dalla critica viene definito come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo. Scriver&agrave; moltissime opere[26], alcune delle quali rielaborazioni delle sue stesse novelle, che vengono divise in base alla fase di maturazione dell&#39;autore: Prima fase - Il teatro siciliano Seconda fase - Il teatro umoristico/grottesco Terza fase - Il teatro nel teatro (metateatro) Il teatro dei miti Generalmente si attribuisce l&#39;interesse di Pirandello per il teatro agli anni della maturit&agrave;, ma alcuni precedenti mostrano come tale convinzione necessiti di una rivalutazione: in giovent&ugrave;, infatti, Pirandello compose alcuni lavori teatrali, andati purtroppo perduti poich&eacute; da lui stesso bruciati (tra gli altri, il copione del perduto Gli uccelli dell&#39;alto). In una lettera del 4 dicembre 1887, indirizzata alla famiglia, si legge: &laquo; Oh, il teatro drammatico! Io lo conquister&ograve;. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell&#39;aria pesante chi vi si respira, m&#39;ubriaca: e sempre a met&agrave; della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio. &Egrave; la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d&#39;azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d&#39;un subito saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: &egrave; una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi! &raquo; (Luigi Pirandello, da una lettera ai familiari del 4 dicembre 1887[27]) &Egrave; in questa dimensione che si parla di &quot;teatro mentale&quot;[28]: lo spettacolo non &egrave; subito passivamente ma serve come pretesto per dar voce ai &quot;fantasmi&quot; che popolano la mente dell&#39;autore (nella prefazione ai Sei personaggi in cerca d&#39;autore Pirandello chiarir&agrave; di come la Fantasia prenda possesso della sua mente per presentargli personaggi che vogliono vivere, senza che lui li cerchi). In un&#39;altra missiva, spedita da Roma e datata 7 gennaio 1888, Pirandello sostiene che la scena italiana gli appare decaduta: &laquo; Vado spesso in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa &raquo; (Luigi Pirandello, da una lettera ai familiari del 7 gennaio 1888[29]) La delusione per non essere riuscito a far rappresentare i primi lavori lo distoglie inizialmente dal teatro, facendolo concentrare sulla produzione novellistica e romanziera. Nel 1907 pubblica l&#39;importante saggio Illustratori, attori, traduttori dove esprime le sue idee, ancora negative, sull&#39;esecuzione del lavoro dell&#39;attore nel lavoro teatrale: questi &egrave; infatti visto come un mero traduttore dell&#39;idea drammaturgica dell&#39;autore, il quale trova dunque un filtro al messaggio che intende comunicare al pubblico. Il teatro viene poi definito da Pirandello come un&#39;arte &quot;impossibile&quot;, perch&eacute; &quot;patisce le condizioni del suo specifico anfibio&quot;[30]: un tradimento della scrittura teatrale, che ha di contro &quot;il cattivo regime dei mezzi rappresentativi, appartenenti alla dimensione adultera dell&#39;eco&quot;[31]. &Egrave; in questo momento che Pirandello si distacca dalla lezione positivista e, presa diretta coscienza dell&#39;impossibilit&agrave; della rappresentazione scenica del &quot;vero&quot; oggettivo, ricerca nella produzione drammaturgica di scavare l&#39;essenza delle cose per scoprire una verit&agrave; altra (come &egrave; spiegato nel saggio L&#39;Umorismo con il sentimento del contrario). Il 6 ottobre 1924 fond&ograve; la compagnia del Teatro d&#39;Arte di Roma con sede al Teatro Odescalchi con la collaborazione di altri artisti: il figlio Stefano Pirandello, Orio Vergani, Claudio Argentieri, Antonio Beltramelli, Giovani Cavicchioli, Maria Letizia Celli, Pasquale Cantarella, Lamberto Picasso, Renzo Rendi, Massimo Bontempelli e Giuseppe Prezzolini[32]: tra gli attori pi&ugrave; importanti della compagnia figurano Marta Abba, Lamberto Picasso, Maria Letizia Celli, Ruggero Ruggeri. La compagnia, il cui primo allestimento risale al 2 aprile 1925 con Sagra del signore della nave dello stesso Pirandello e Gli dei della montagna di Lord Dunsany, ebbe per&ograve; vita breve: i gravosi costi degli allestimenti, che non riuscivano ad essere coperti dagli introiti del teatro semivuoto[33] costrinsero il gruppo, dopo solo due mesi dalla nascita, a rinunciare alla sede del Teatro Odescalchi. Per risparmiare sugli allestimenti la compagnia si produsse prima in numerose tourn&eacute;e estere, poi fu costretta allo scioglimento definitivo, avvenuto a Viareggio nell&#39;agosto del 1928.</span>
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